21 aprile 2013

Elezioni 2013 e PD: riflessioni su un fallimento politico

da Francoforte sul Meno, Germania

Sembrano essere passati anni dal quel bagno di folla in campagna elettorale durante il quale Bersani prometteva "Smacchieremo il giaguaro." Ancor prima di quel giorno, tuttavia, il gradimento e la tenuta del Pd stavano calando gradualmente ma inesorabilmente fino al crollo del day-after l'elezione del Presidente della Repubblica.

In estrema sintesi:
  • Prima del voto, con una campagna elettorale tanto scialba quanto di basso profilo, il Pd getta al vento un vantaggio sul Pdl che i sondaggi davano, a dicembre, di quasi venti punti percentuali (38% contro 18%).
  • Il risultato elettorale è stata una vittoria ma, per quanto al punto precedente, vissuta più come una sconfitta: il Pd non ha i numeri al Senato per governare.
  • Con le consultazioni, inizia l'elemosina di Bersani che cerca di convincere il M5S che si può lavorare insieme. Gli obiettivi comuni, sulla carta, ci sarebbero ma Bersani in risposta ottiene solo provocazioni, offese, porte sbattute in faccia ed umiliazioni mediatiche
  • Bersani, anziché rinunciare all'incarico, si intestardisce. Senso di responsabilità verso il Paese? Volontà ossessiva di non voler perdere l'occasione della sua vita politica? Non si capisce, ma questo atteggiamento non ha fatto altro che minare l'unità interna della coalizione ed il rapporto con gli elettori.
  • A due mesi dal voto, e senza prospettive di governo immediato all'orizzonte, si arriva all'elezione del Presidente della Repubblica. Il Pd propone prima Marini, poi Prodi, entrambi sconfitti in Aula grazie alle spaccature interne al Pd stesso. 
  • Il partito non segue più il suo segretario (o il segretario non è mai stato capace di guidare il partito) e Bersani rassegna le sue dimissioni, effettive dal momento dell'elezione del Presidente della Repubblica.
  • A causa delle varie correnti interne al Pd non si può escludere la scissione del partito.

Di fatto, da dicembre ad oggi abbiamo assistito ad un fallimento politico che ha del paradossale, risultato di una cattiva amministrazione del vantaggio prima del voto, e di una pessima interpretazione della volontà dei propri elettori dopo.

Prima del voto
Agli inizi di dicembre, secondo un sondaggio Demos pubblicato su Repubblica, il Pd è l'unico partito in crescita: dopo le primarie di partito, Bersani conterebbe sul sostegno del 38% degli italiani mentre il Pdl era ancora bloccato a poco più del 18% e Grillo era in una situazione di stallo. Il distacco da Berlusconi era abissale e sembrava che le elezioni non avrebbero avuto storia.

A quel punto Berlusconi decide di rientrare in campo: candidato premier? Capo coalizione? Ministro? Non importa, perché il suo ritorno ridà fiato ai sondaggi e da quel momento in poi in sondaggi cominciano a raccontare una storia diversa, preoccupante per il Pd, entusiasmante per il Pdl.

Dopo una campagna elettorale a bassa intensità il Pd, al termine dello spoglio, si sveglierà dai propri sogni di governo e si ritroverà nella realtà: una situazione di ingovernabilità con il Pd e Pdl divisi fondamentalmente da 100 mila voti, pressati dal M5S.

Dopo il voto
Al voto di febbraio il Porcellum ha regalato all'Italia un Parlamento di fatto senza una maggioranza in grado di sostenere un governo. Bersani, ritrovandosi senza la maggioranza al Senato ha dovuto cercare dei punti di contatto con le altre forze politiche.

Era chiaro sin da subito che il Pdl avrebbe cercato di formare un governo con il Pd, almeno per garantire quelle riforme necessarie per placare i mercati e tornare al voto. Altrettanto chiara la volontà dell'elettorato di centrosinistra di non voler scendere ad alcuna forma di patti con Berlusconi. Allora, chi rimane?

Monti e Scelta Civica non erano sufficienti a garantire la maggioranza che, a quel punto, non poteva prescindere dal sostegno del M5S.

Beppe Grillo, se prima delle elezioni aveva bersagliato la "Casta," dal giorno dopo il risultato storico del suo partito ha trovato in Bersani e nel Pd la sua vittima preferita. Di fatto, il M5S ha chiuso ad ogni forma di collaborazione politica per arrivare ad una maggioranza di governo puntando tutto sull'intento populista dell'avvio immediato dei lavori parlamentari.

L'aut aut di Grillo, anziché portare il Pd a spingere i grillini all'angolo minacciando il ritorno alle urne, ha spinto Bersani ad accettare e sopportare umiliazioni di ogni tipo come l'oramai famoso incontro in diretta streaming con Crimi e Orlandi. Un incontro durante il quale il segretario del Pd ha subito passivamente le provocazioni ed il "nulla" proferito dagli etero-diretti grillini, mancando l'occasione di mettere a nudo la loro impreparazione e mancanza di contatto con la realtà delle istituzioni.

Dopo il fallimento delle trattative e delle consultazioni del Presidente Napolitano, si arriva alla elezione del "nuovo" Presidente della Repubblica.

Il Pd arriva con una rosa di nomi che presenta al Pdl. Il primo nome, Marini, potrebbe anche andare ma la modalità con la quale ci si è arrivati (incontro riservato Bersani-Berlusconi) fa infuriare la base del Pd e crea una grave spaccatura all'interno del Partito Democratico. Spaccatura che affosserà la candidatura stessa di Marini e porterà alla proposta di Prodi.

Grillo nel frattempo lancia le "quirinarie" dalle quali esce il nome di Stefano Rodotà, dopo le rinunce della Gabanelli e di Gino Strada, arrivati prima e secondo rispettivamente. Il metodo per la scelta del nome, secondo Grillo, è garanzia di democrazia e sarebbe rappresentativo della volontà popolare. Il comico genovese, tuttavia, alla data odierna non ha ancora reso pubblici i dati sul voto delle quirinarie.

La cosa che non si capisce è perché, dopo il fallimento di Marini, il Pd non abbia deciso di convergere sul nome di Rodotà, ignorando parte della propria base che aveva cominciato a sostenerlo, ma si sia lanciato su Romano Prodi con il risultato che tutti conosciamo. In più con l'aggravante di aver lasciato dietro di sé il sospetto di non aver voluto votare Rodotà solo perché candidato dal M5S.

Alla fine, alla sesta votazione, è passata la rielezione del Presidente Napolitano, il primo bis della storia repubblicana, anche lui rappresentanza di un voto comune, un accordo o un "inciucio" con il Pdl, come lo definirebbe qualcuno.

Le spaccature interne al Pd oramai sembrano insanabili e Bersani ha già rassegnato le sue dimissioni, assieme a tutta la segreteria del partito. Il Pd sembra essere allo sbando, forse destinato a spaccarsi. Se fossi un elettore del centrosinistra crederei probabilmente di essere nel bel mezzo di incubo che dura dal giorno in cui Berlusconi ha deciso di riprendersi il centrodestra, lo scorso dicembre.

Chi nel centrosinistra aveva intravisto un governo capace di "abbattere" il Pdl e di relegare Berlusconi nella soffitta della politica si sono dovuti prima scontrare contro la il muro delle urne poi, successivamente, contro l'utopia di un governo d'intenti con i grillini, fermi nella loro prepotente convinzione di poter imporre la loro linea ai due terzi del Parlamento e al resto del Paese.


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