24 ottobre 2012

Bengasi: quale verità?

da Francoforte sul Meno, Germania
L'attacco al Consolato USA di Bengasi (foto AFP)
Durante il secondo dibattito presidenziale tenutosi lo scorso 16 ottobre, il Presidente Obama uscì fondamentalmente indenne dagli attacchi dello sfidante repubblicano sulla questione Bengasi. Alcune rivelazioni lanciate stamattina dai media americani, tuttavia, potrebbero riportare questo scottante tema al centro della campagna proprio durante lo sprint finale. E se Obama avesse deliberatamente nascosto la verità su Bengasi per salvaguardare la sua campagna elettorale?

Facciamo allora qualche passo indietro. Durante il faccia a faccia Mitt Romney aveva cominciato ad incalzare Obama, criticandolo sulla incapacità della sua amministrazione di riconoscere che in Libia si trattò di attacco terroristico vero e proprio e non di una manifestazione popolare di sdegno in risposta ad un video offensivo per l'Islam. Obama cercò di difendersi sostenendo che già la mattina seguente definì l'attacco un'azione terroristica. Romney, che doveva aver rivisto i video in archivio, gli fece notare che non andò proprio così. Fu proprio allora che la moderatrice (filo-democratica) Candy Crowley mise da parte l'imparzialità impostale dal suo ruolo per "sostenere" Obama, determinandone di fatto la vittoria ai punti nel secondo dibattito. I "fact-checker" diranno successivamente che Romney aveva ragione.

Per tutto questo tempo, quindi, la difesa di Obama contro le accuse di inadeguatezza, si è basata sulla supposta difficoltà di reperire dal campo informazioni chiare ed inequivocabili nei momenti successivi alla morte dell'ambasciatore americano e di altri tre membri dello staff, spostando di fatto l'attenzione mediatica sul presunto casus belli: il già citato video, peraltro di scarsissima qualità e accessibile su youtube da mesi.

Oggi, tuttavia, alcuni media, tra cui Reuters e Fox News, sono entrati in possesso ed hanno pubblicato il contenuto di tre messaggi di posta elettronica inviati dal Centro Operativo del Dipartimento di Stato a diversi uffici governativi, inclusa la Situation Room della Casa Bianca e il Pentagono, nei momenti successivi all'attacco.

Il primo messaggio, inviato circa 20-30 minuti dall'inizio dell'attacco, citava un rapporto dell'ambasciata americana a Tripoli che riportava la presenza di almeno 20 uomini armati, colpi di arma da fuoco ed esplosioni, e che l'ambasciatore Stevens era al sicuro con il suo staff.

Il secondo messaggio, "Update 1", 50 minuti dopo il primo, annunciava la fine dell'attacco, che il compound era stato liberato e che era stata inviata una squadra di supporto.

Nel terzo messaggio, "Update 2", 70 minuti più tardi, si faceva già riferimento alla rivendicazione dell'attacco da parte del gruppo Ansar al-Sharia.


Il terzo messaggio, "Update 2: Ansar al-Sharia rivendica l'attacco di Bengasi" 

Sappiamo che nei giorni seguenti nessun portavoce dell'amministrazione Obama, né lo stesso presidente americano, ha parlato di un attacco terroristico pianificato, continuando invece a sostenere la versione della manifestazione di protesta.

Mike Rogers, repubblicano e chairman della Commissione Intelligence della Camera, ha espresso preoccupazione per lo stato delle indagini sostenendo che il team Obama è troppo preso negli sforzi di riconciliare le dichiarazioni e le versioni discordanti che ha diffuso dopo l'attacco.

Roger ha poi fornito ulteriori dettagli, come ad esempio il fatto che lo stesso comitato da lui presieduto fu informato dopo sole 12 ore dall'attacco che lo stesso aveva un'impostazione di tipo militare. La conferma dell'uso di mortai, secondo Roger, non fa altro che confermare che questo tipo di operazione abbia richiesto un'accurata pianificazione.

L'analista militare Ralph Peters ha spiegato infatti che l'uso dei mortai richiede pianificazione, posizionamento e calcoli matematici che sono incompatibili con l'ipotesi di un attacco spontaneo. La scelta di dove posizionare i mortai, ad esempio, deve essere stata fatta alla luce del giorno, in modo da avere un contatto visivo con il bersaglio. Qualcun altro doveva poi trovarsi in prossimità del compound per comunicare al gruppo di fuoco le informazioni necessarie per ricalibrare le armi.

La stoccata di Rogers arriva quando parla di recenti "selective leaks", fuoriuscite selettive di informazioni, incluso un rapporto sul Washington Post, suggerendo che si tratti di uno sforzo orchestrato dell'amministrazione Obama di legittimare le prime dichiarazioni fatte dall'Ambasciatore USA alle Nazioni Unite, Susan Rice e di altri sulla natura dell'attacco. Nello specifico, Rogers lamenta il fatto che i media starebbero entrando in possesso un po' alla volta di alcune importanti informazioni, già richieste dal comitato di intelligence da lui presieduto.

Le notizie di oggi e il pensiero di alcuni commentatori potrebbero riportare alla ribalta un discorso che sembrava chiuso. Un tema sul quale Romney aveva addirittura rinunciato a premere durante il terzo dibattito.

Ora, però, il caso Bengasi potrebbe investire Obama su un piano completamente diverso: il Presidente a questo punto non dovrebbe più difendersi solo dalle critiche per una cattiva gestione della situazione, ma dovrebbe spiegare agli americani perché, pur avendo ricevuto una sufficiente quantità di informazioni tale da far per lo meno pensare ad un attacco premeditato, abbia indugiato per giorni (due settimane secondo i repubblicani) sull'ipotesi della protesta spontanea.

Ragioni di opportunità politica? La paura che la realtà di un secondo 11 settembre lo avrebbe danneggiato in piena campagna elettorale?

Presidente Obama, ce la racconti tutta, lei che ha sicuramente i mezzi per farlo.