04 agosto 2012

Leadership: una questione di comando o di servizio?

da Roma, Italia
Negli ultimi tempi, osservare la difficile situazione economica e sociale italiana mi porta quasi inevitabilmente a pensare alle possibili cause che la determinano. Non c’è crescita né sviluppo e le prospettive non sembrano essere positive. Crescono il malcontento e la sfiducia: non solo dei mercati ma soprattutto della gente comune nei confronti del prossimo. Mi sono così soffermato sul ruolo dei nostri attuali leader. Sono giunto alla conclusione che forse proprio l’errata interpretazione del concetto di leadership è tra le cause principali del malessere diffuso nel nostro Paese.

Devo ai miei genitori e alla mia religione l'avermi trasmesso l’idea che alla leadership è indissolubilmente legato un certo grado di responsabilità. Mi hanno insegnato che leadership è servizio e che essere un leader vuol dire servire, impegnarsi per il bene del prossimo. Nulla di più. Mi è stato detto che quando le cose vanno bene è giusto riconoscere soprattutto i meriti della squadra. Che quando le cose non funzionano, è giusto che il leader ci metta la faccia e se ne assuma tutte le responsabilità.

Un leader è colui o colei che sa di essere utile ma non indispensabile; tra i migliori, ma non l’unico; che lascia le cose in uno stato migliore di come le ha trovate; una persona che sente la responsabilità di coltivare e responsabilizzare chi inevitabilmente verrà dopo.

Nel nostro Paese, al contrario, i "leader" sono quelli che prendono le decisioni e che guidano...comandando. Che sono sempre al loro posto, estranei e immuni da critiche e non giudicabili secondo i criteri generalmente applicati alle persone "comuni".

Sono quelli dei partiti, dei vertici delle aziende statali, dell'ufficio, che quando le cose vanno bene, s'innalzano a semi-dei. Se poi un governo non va, se il partito perde clamorosamente una tornata elettorale, o se l'azienda offre servizi scadenti o buchi di bilancio clamorosi, restano comunque ben saldi al proprio posto.

Poi provo a trovare una via d’uscita. Ed è allora che mi assale lo sconforto. Quando penso (come molti) che forse le cose in Italia non cambieranno mai. 

Sarà forse proprio qui che mi sbaglio? Che ci sbagliamo? Sarà forse questo senso d’impotenza (e indifferenza) collettiva che impedisce ad un popolo come il nostro di cambiare le cose? Sarà questa la colpa principale dell'italiano medio?

Tornando al concetto di leadership, credo davvero che si dovrebbero rivedere la concezione e l’idea che abbiamo di questo termine e del ruolo di un leader, inclusi i valori che vi associamo. È indispensabile fare un salto di qualità. Credo questo debba essere il primo aspetto culturale da cambiare, se davvero vogliamo migliorare le cose.

Tutti noi dobbiamo essere i primi a sposare l'idea che chiunque può essere un leader (nella propria casa, in ufficio, nel quartiere, nel partito, ecc.) quando al comando, si sostituisce il servizio (per i propri cari, in aiuto dei nostri colleghi, per migliorare i rapporti tra i vicini, per promuovere il bene comune). 

Tutti possiamo essere dei leader e cambiare le cose quando allo scaricabarile, sostituiamo l'assunzione di responsabilità. Quando togliamo spazio all’autoreferenzialità e agli interessi personali per mettere coloro di cui siamo responsabili e ai quali dobbiamo rispondere del nostro operato, al primo posto.

Questo è ciò che la nostra classe dirigente dovrebbe tenere a mente mentre dibatte su quale legge elettorale è meglio per il Paese. Questo è ciò che i cittadini dovrebbero considerare in un candidato quando si appresteranno a scegliere i propri leader. Quando le prossime elezioni avranno luogo, poco importa. Questo esercizio vale la pena intraprenderlo da subito.

Gesù Cristo ha dato un esempio eccellente di leadership. Possibile che in un Paese come il nostro, dove la fede è presente da sempre nel suo DNA istituzionale e nella quasi totalità dei suoi abitanti, ce lo si dimentichi così facilmente?